domenica 13 gennaio 2019

One voice

Spesso un testo ha quel dannato elemento cruciale che per un po' tieni lì da parte in attesa del momento giusto. E un giorno senti che il momento è arrivato, ti rimbocchi le maniche, dici "Ok, a noi due adesso", e sai che sciolto quel nodo, il libro sta per staccarsi da te e iniziare la sua vita.
Sto traducendo un bel romanzo di Angie Thomas, "On the come up", che ruota tutto intorno allo hip-hop, e a un brano importante e... pericoloso scritto da una giovanissima rapper. Un rap che parla con fierezza di pistole e di gangsta culture - cose aliene per noi, e che nel testo vengono ampiamente dibattute e spiegate, in tutti i loro aspetti, mirabilmente, senza sconti ma da un prezioso illuminante punto di vista "street level".
Ecco, oggi mi sono veramente calato nei panni della giovane Bri, principessa del Garden, e completando e intonando a voce alta la versione definitiva del testo, le cui barre tornano più e più volte nel libro (e potrò riportarle tradotte, finalmente) ho finalmente capito la sua rabbia, le sue ragioni. È come se dandole la voce le avessi permesso di rappare per me, e spiegarmi cosa prova davvero. Se vi dico che ho avuto i brividi e mi sono commosso, non voglio pensiate che sto vantandomi del mio lavoro, né che io voglia attribuire un valore magico alla letteratura e alla traduzione. È narrazione, è lavoro, "sono solo parole", come più volte viene ribadito nel romanzo.
No, sto solo dicendo che sono felice perché questo libro parla di una voce che nasce, e perché il mio lavoro consiste esattamente nel dar vita a una voce, e quando arrivo a sentire la voce parlarmi fuori dalla pagina sullo schermo significa che il mio libro è pronto per conoscere il mondo e che la fatica di lunghe settimane acquista, infine, un significato.

(soundtrack)

domenica 26 agosto 2018

Damn, I Wish I Was Your Lover

[Lo sai, sono felice per voi,]
scrive adesso.
[No. Per te. Che me ne frega di lui. Però, no, davvero. Sul serio, dico, per quanto io possa essere rompicoglioni e, sì, oh, innamorata, sapere che hai una cosa stabile, che ti rende felice, serena, mi dà tanta gioia.]
[Poi ovviamente spero che litighiate presto e ti innamori di nuovo di me! (sorriso)]


Leggo e sospiro, fra nausea e tenerezza. "Di nuovo"?

Una persona così in gamba, così sveglia e serena, così posata, così... tutto... sei diventata una specie di creatura tutta tentacoli, ogni tentacolo teso per afferarmi e stringermi a te. Clelia, sei sempre stata la più splendida straordinaria amica che si potesse desiderare. Sei rimasta ferma, bloccata a quella sera. Ti ho perduta lì.


[Certo, significherebbe che sono un rimpiazzo.]
[Sai cosa vuol dire, sentirsi un rimpiazzo, eh?]
[Spero che tu te ne renda conto! Ma sarebbe qualcosa! (sorriso)]
[E poi chissà. Sperare cosa costa? (sorriso)]


Sei così scema, Clelia meravigliosa, Clelia mia, sei così alta, splendida, eterea, voli così armoniosa nel cielo, e ti butti sotto ai miei piedi come l'ultimo degli zerbini. Come l'ultimo degli uomini. Non è degno di te, Clelia, non è degno di una donna. Amica mia, amore mio, smettila. Non voglio perderti. Ti prego, ti prego.
Dici che non mi riconosci più. Che a volte ti sembra di essere invisibile per me. Che sono stata sostituita dai baccelloni, scherzi (scherzi?). Che al posto di Antonella c'è adesso una creatura tutta neuroni e niente sentimenti, sei arrivata a dire. Dimmi anche questa, Clelia, di' che sono un mostro! Vorrei sbatterti la testa nel muro a volte, Clelia, vorrei abbracciarti teneramente, verrei lì ad abbracciarti adesso, pazza, se non avessi paura di accenderti stupide speranze. Quello che è successo è successo, quella notte fantastica e maledetta. Siamo amiche. Abbiamo giocato, da amiche, abbiamo riso ed è stato splendido. Non lo dimenticherò mai neanch'io, amica mia. Come spiegartelo? Come te lo spiego che anche tu, soprattutto tu sei irriconoscibile, sostituita? Che non sembra più possibile parlarti di niente, senza la paura che una parola scocchi come una scintilla per mandarci ai matti?


[Cine, stasera?]

[Non c'è quello?]

[Quello si chiama Angelo. E, sì, ci sarebbe anche lui, ovvio. Problemi? (sorriso)]

[Io? Uh, figurati. Sono una persona matura e misurata! (sorriso)]
Matura e misurata. Sì, Clelia.

[Ma avevo un impegno. E poi, cazzo, state un po' da soli! Consumatelo questo rapporto! Sfinitevi! Stancatevi! Mollatevi poi! (sorriso) (lacrime).]

[Clelia. (sorriso) (lacrimuccia)]


Io sono quella di sempre! Dove sei finita, tu, amica mia? Come te lo dico? La rivivrei anch'io mille volte quella notte buffa e divertente, ma è stata solo questo, una notte buffa e divertente. E non si ripeterà, perché ho paura. Ho paura per te, e per me. Io non ti amo, Clelia, te l'ho detto in tutti i modi possibili, e tu robottino, tu ultracorpo baccellone, tu non sei più tu!
Ho paura ad aprir bocca con te, figurarsi toccarti la meravigliosa fica di gelsomino. Clelia, amica mia, amore mio (mai più queste parole!), Clelia, passerei mille notti come quella, con te, ma se mi dici che mi ami io non posso più, se mi cerchi a ogni ora, con ogni scusa, se sospiri, se mi guardi con quegli occhi famelici, Clelia, io devo scappare, per salvarmi e per salvarti, amica mia, amore mio.

[Sì, lo so, lo so. Comunque, ho da fare.]
[Devo studiare per l'esame.]
[Devo finire The Leftovers.]
[Devo fare un centrino all'uncinetto.]

[Uncinetto?!?!? (risate)]

[Uncinetto, sì! (faccia arrabbiata)]
[Uncinetts is the future! Cazzo vuoi? Desperate uncinett lesbians, the new pazzesc show.]

[Bestia. (sorriso)]

[Suca.]

[Dopo il cinema sicuramente (cuoricino)]

(Odio essere stronza. Odio essere stronza. Odio essere stronza. Clelia. Vorrei poterti dire quanto odio essere stronza. Ma devo essere stronza e non ti posso dire quanto. Odio. Essere. Stronza. Clelia, amica mia, amore mio.)

Clelia sta scrivendo... Sta scrivendo... e s'interrompe. Sta scrivendo... ancora.
S'interrompe.
Che ansia. Che dolore. Dopo quattro minuti partorisce:

[Ah vabbé, forse non te lo ricordi più ma ci sono al mondo cose molto più belle da sucare (faccina bavetta)]

Io sono già pronta e devo solo dare invio:
[Sucar, ch'a nullo sucato sucar perdona.]

[...porco cane! (pianto)]
ribatte all'istante.

[Com'è bella la suchezza che si fugge tuttavia! Chi vuole sucare, suchi, di doman non c'è suchezza.]

[Gne gne gne gne. E comunque "quant'è bella", non "com'è bella".]
[Suca.]
[No, non sucare. (lacrima)]

Sulla letteratura non c'è speranza di coglierla in fallo. Sa tutto.

[Quindi niente cinema? Ci lasci soli?]

[Soli come due piccioncini. Un piccione e una fava.]

[In genere i piccioni sono due.]
[Vuoi fare il secondo piccione?]
[Ci divertiamo!]

(Perdonami, Clelia. Perdonami, Clelia. Perdonami, Clelia. Perdonami, Clelia. Perdonami, Clelia.)

[Sono una persona seria, io. (faccina offesa)]

[Io no! (occhiolino, bacetto)]

[Ti odio, lo sai?]

[Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile. (occhiolino)]

[Ti ODIO, lo SAI? (cuore spezzato)]


[Lo so. Vado adesso. Ti voglio bene. (cuoricino)]

[Io ti AMO. E non in inglese.]


[Suca.]

[Solo con te.]
[*Solo te (cuoricino)]

Clelia, Clelia, Clelia, Clelia bionda, esile, sognante, magica, triste Clelia. Clelia da piangere, Clelia delle meraviglie, Clelia della spiaggia e delle stelle e dei sogni e dei progetti. Vorrei tanto, tanto, tanto, tanto amarti, Clelia. Saresti la persona più fantastica al mondo da amare. Ma questa vita è una puttana maledetta, Clelia mia, amica mia, amore mio. Ti prego, Clelia, torna da me, torniamo bambine, torniamo a prima, torniamo felici. Ti prego, Clelia, ti prego.
Non lasciarmi sola.

mercoledì 8 agosto 2018

Thirteen (10)

Non capisco perché mi abbiano lasciato qui da solo con queste due valigie.
Forse sono già saliti a bordo e non si sono accorti che non li seguivo più. La stazione è grande e basta un attimo a perdersi. Ecco qua, non vogliono comprarmi il telefono e poi vedi cosa succede. Mi trascino a fatica verso il treno. Il cielo è di un grigio cupo. Perché siamo qui? Non dovevamo partire in aereo? Sono stufo di tutte queste belle idee degli adulti. Il treno è fermo ma non riesco ancora a raggiungerlo, è ancora troppo lontano e le valigie sono pesanti. Mi chiedo se non sia il binario sbagliato, magari mi stanno cercando. Il tabellone elettronico dice “Roma - 18:10”.
Fermo un signore con la divisa blu e gli chiedo se il treno per Roma è quello giusto per andare a Catania.
Il ferroviere ha il centro della faccia completamente vuoto, al posto del naso ha una specie di cratere, ma di pelle rimarginata, come se gli avessero sparato in faccia, però tanto tempo fa, forse quando era un ragazzo, e gli si fosse riformata tutta la pelle ma senza il naso. Mi guarda con lo sguardo torvo e interrogativo, poi mi dice di sì ma scuote il capo.
Quando mi volto verso il treno è ancora fermo, ma sembra un po' più lontano ora. Mamma e Enzo non si vedono ancora. Le valigie sono proprio pesanti e non ce la faccio più a tirarle. Non dovevano lasciarmi qui da solo. Ho paura adesso e sono arrabbiato. Non è un posto che conosco, è troppo grande e non so dove andare. Magari il ferroviere mi ha dato un'indicazione sbagliata oppure non era un vero ferroviere. Dovevo chiedergli se ci sono altri treni che vanno a Catania. Magari loro sono proprio su un altro treno. Non so neppure dove ho il biglietto. Doveva averlo la mamma. E magari alla fine mi rimprovereranno per giunta e mi prenderanno per scemo perché mi sono perso. Avrei voglia di piangere ma mi trattengo. Ho deciso tanto tempo fa che non piangerò mai più in vita mia. Le valigie diventano più pesanti a ogni passo. Non sono io che sono stanco, sarei pronto a scommettere che stanno diventando sempre più pesanti.
Non ne posso più.
Le lascio cascare per terra e una scoppia e si apre come una bomba di vestiti. Mi imbestialisco e la prendo a calci, inizio a gettare per aria tutto quanto. Ma che roba ci ha messo la mamma? I quaderni delle elementari? Camicie di quand'ero piccolo? Un paio di pantaloncini che avevo strappato al parco giochi! Delle foto, un sacco di foto in cui sono venuto malissimo. Foto imbarazzanti, foto di me da piccolo seduto sul vasino e un'altra con il cono gelato e una macchia marrone sul petto e la faccia dispiaciuta. Una foto di quando mi è uscito il sangue dal naso. Ho la faccia da cretino in tutte queste foto. Non sapevo neanche che esistessero. Rovisto ancora, contengono solo cose mie, ma che non avrei portato mai e poi mai, cose inutili e stupide su di me. Bavaglini! Inizio a gettare sulla banchina magliette e maglioni ormai stretti, il berretto di lana brutto, marrone, quello con i paraorecchi che a scuola mi toglievano e si lanciavano fra loro a ricreazione, e calzini, scarpine eleganti con la fibbia argentata, minuscole. Vestiti che ormai non mi stanno più: perché la mamma voleva portarli?

Guardo il tabellone e vedo che l'orario è cambiato. Dice “Napoli - 17:50” adesso. Sono già le cinque e mezza. Il cielo è davvero cupo adesso, come prima di un temporale. Il treno non si è mosso, ne sono certo, ma è più lontano, là in fondo, anzi a dirla tutta sembra su un altro binario. Mi guardo indietro e l'inizio della banchina è lontanissimo, ho camminato troppo forse, e non so come fare. Dovrei tornare? Recuperare le valigie, raccogliere tutte quelle schifezze inutili e trascinarmele indietro?
Ma quando alzo gli occhi e mi guardo intorno non c'è più nessuno.
Nessun treno e neanche la stazione. Sono da solo in un intrico di banchine e binari che si stendono all'infinito all'orizzonte, senza vagoni, senza persone. Il mondo è diventato una serie di linee interminabili e nel mezzo io e le mie valigie spaccate e inutili.
È buio ormai. Adesso ho davvero paura perché non so più come tornare e non so più quale sia la direzione giusta. Venivo da destra o da sinistra?
Mi sento soffocare.
Raccolgo tutto il fiato che riesco, ma è mozzato, e vorrei urlare, ma la sola cosa che mi esce è una specie di rantolo. Non riesco più a respirare.

Scatto d'improvviso e sento quel suono, il mio rantolo, e vedo due occhi rossi che mi scrutano nel buio. Provo a urlare, ma non ci riesco!

- Che cavolo hai? - sento sbraitare.
Gli occhi sono una luce rossa che dice 03:03. Mi guardo intorno.
Mi domando se sia stato l'urlo a riportarmi qui in camera mia, e se mia sorella abbia sentito. - Niente - dico.
- Dormi e non rompere, babbuino spastico.
Non era un sogno, non poteva essere un sogno. Era il viaggio. Sono andato a letto che ero ancora in Piemonte, ne sono sicuro. E adesso siamo in Sicilia.
Forse sto diventando pazzo. Come in quel film. Come si chiamava.
No.
Calmati.
Era solo un incubo. Uno di quelli in cui non respiro più e non riesco a gridare. Non lo so perché mi succeda. Non l'ho mai detto a nessuno.
E ho ancora paura.
Forse significano qualcosa. I sogni hanno un significato, no?
Un avvertimento. O una malattia. Forse sono indemoniato.
A volte mi chiedo se siano davvero sogni. L'altra volta ho sentito un demone entrarmi dentro la pancia. Era troppo... era troppo vero. Forse è ancora lì dentro. Forse mi sto trasformando in... qualcosa.
Ho ancora paura ad alzarmi dal letto.
A tredici anni, avere paura ad alzarsi dal letto. Avere paura degli incubi. Mia sorella non deve saperlo. Non deve saperlo nessuno.

sabato 4 agosto 2018

Sweet Summer Sour [The wrong child]




A chi mi vede sembrerà che io sia immobile qui senza far nulla, gli occhi fissi, sbarrati come uno zombie. Ma se vi prendete la briga di seguire il mio sguardo scoprirete che là sopra, quel rettangolo di vetro sopra la porta, è composto da uno strano mosaico di figure spezzate. Le osservo da tempo, unendole a due a due o a tre a tre e cerco di formarne una senza angoli concavi. L’altro giorno c’ero quasi riuscito, credo, ma poi ho perso il conto dei poligoni; e comunque era troppo grande, non valeva. Chi ha inventato questa vetrata voleva farmi impazzire. Alla fine non sono certo sia possibile riuscirci: dev’essere stato un genio del male chi s’è inventato questa fantasia. Ma probabilmente è tutto casuale, e sto qui ad ammattire inutilmente. Un po’ come la vita: se c’è un Dio che se l’è inventata così dev’essere un sadico. Ma quel che non si può accettare è che invece Dio non ci sia e che queste figure che non combaciano mai siano soltanto un caso.
A dirla tutta, alla fine sono tutte dentro a una grande cornice perfetta e rettangolare, e questo suppongo abbia un significato da far felice un prete. Ma non vale uscire dallo spazio delimitato. Come aprire la scatola di Schrödinger per vedere se il gatto è vivo o è morto; no, il gioco funziona fino a che non sai se le radiazioni l’hanno ammazzato o no, solo così il gatto è contemporaneamente in due dimensioni quantistiche ed è contemporaneamente vivo e morto.
E adesso ho capito perché me ne sto chiuso qui il pomeriggio anziché scendere in spiaggia come tutti quei ragazzini entusiasti.
Penserete che io sia uno di quei piccoli geni. Niente di più sbagliato. Lo pensano pure Rocco e Vito, lo pensano tutti anche se vado male in tutte le materie e la mia pagella è una schedina. So programmare in basic, in un paio d’ore posso farvi un listato per far apparire una parolaccia diversa a ognuno dei miei compagni di scuola, ma questo non fa di me un genio. Fra qualche anno avere un commodore in casa e scrivere programmi in basic sarà ovvio come rispondere al citofono. E teoricamente quel programma lì non è molto più utile che unire queste figure sul vetro e far mangiare cassette a questa radiolina. Perché non sono del tutto immobile e in silenzio, sto ascoltando i R.E.M.. Tra poco tocca ai Cure di “Disintegration” o a quell’altro che ho comprato l’altro giorno, “Seventeen Seconds”. Uno dei primi, di quasi dieci anni fa, dovevano avere poco più della mia età quando l’hanno inciso, e questo torna ad acuire il mio senso di immobilità rispetto all’universo. Il mio compagno Cola Sciarinu, quello ripetente, dice, “Geografia astronomica: l’universo è tutto un giramento di palle!”, e sbotta a ridere da solo, sgangherato, con quel dente che gli manca. Somiglia a Mino Reitano, ma si mette i Levi’s e si fa i capelli con la Nivea, e alle ragazze piace. Prima di “A forest” c’è un punto in cui sembra che si stia mangiando il nastro, la prima volta che l’ho sentito ho tolto la cassetta spaventatissimo. Pazzi.
Un’altra cosa che sto facendo, sdraiato su questo letto a costruire poligoni teorici e ad ascoltare musica, è pensare in inglese. Ultimamente penso in inglese tutte le cose più segrete, quelle che non potrei rivelare a nessuno. Sfoglio il dizionarietto e costruisco frasi, “What must I do to see you again, M.?” (questa non la penso come la vedete scritta, è una specie di lamento, o un sospiro se preferite); “I like The Smiths and R.E.M., what music do you like?” (questa è per la ragazza americana che ho visto l’altro giorno... ho detto al mio fratellino che gli abbuono le famose millecinquecento lire della sala giochi se me la presenta); “Your eyes are very beautiful”. In inglese penso tutte quelle cose che non dirò a nessuno, non solo perché sono troppo timido, ma non ho una ragazza cui dirle, a parte M. che chissà dov’è, ma so che sente tutto quel che le dico.
Lo so cosa pensate. Non dovrei essere fatto così. Anch’io non lo vorrei. Farei qualunque cosa per non essere così, e la mia domanda ricorrente è come andare dall’A di oggi alla B di Cola Sciarinu senza diventare come lui. Dev’esserci un senso in tutte queste cose, e un motivo per cui tutte le “R” di “Green” se le guardi in controluce sono dei numeri 4. Nella mia rivista dice che Michael Stipe beve un intruglio strano di erbe e ha una casa cinematografica che si chiama C-00.
Qui nel bagno della casa di quest’anno ci sono le veneziane, e mettendole nella posizione giusta potrei guardare il palazzo di fronte e farmi un raspone. Di nascosto, guardando una ragazza vera! E magari qualche volta la beccherò a spogliarsi, come in quei film del sabato notte su Tele D. Ok, la figlia dei vicini non è esattamente la Fenech, anzi, direi proprio il contrario, ma è bello osservarla non visto e pensare che se volessi... e se mi scoprisse, e decidesse di spogliarsi apposta? A dire la verità è solo un gioco, perché io penso solo a M. e, a parte lei, all'americana, ma solo perché M. è morta. Probabilmente per il dolore della mia lontananza. O in qualche modo è ancora viva ma il suo spirito si è spostato nell'americana. L’angelo scappa da un corpo all’altro, ora lo so, e devo scoprire dove sia finito prima che fugga di nuovo, e fermarlo una volta per tutte. Immagino che stare chiuso in casa tutto il giorno non sia una strategia molto furba, ma un giorno ci troveremo, e saremo felici per sempre. Faremo tutto insieme, faremo l’amore, leggeremo insieme, ascolteremo insieme la musica, parleremo dei testi dei R.E.M., berremo birra e rideremo un sacco. A volte provo a immaginare quale sia la posizione giusta per stare seduti a limonare con una ragazza sul muretto. Mi piace pensare di tenere gli inguini attaccati, e questo suppongo voglia dire che dovrei tenere le gambe larghe io, oppure lei. A volte mi dico non c’incontreremo mai e dovrò accontentarmi di stare con una e mettere su una fabbrica di figli infelici da mantenere e mandare al catechismo fino all’età in cui non decidono di rinchiudersi immusoniti a guardare da dietro le veneziane nella casa del mare.
Preferirei morire adesso.
La figlia della vicina ha un’amica bellissima e magra, capelli ondulati, arriva con la vespa blu metallizzata. Il blu fa risaltare le sue gambe abbronzate. Può anche darsi che il mio angelo in realtà si sia materializzato in lei. Dovrei scoprirlo.
E il punto è questo. Io so dove mi trovo. Su questo letto, o in bagno dietro la persiana, specialmente quando sento il rumore della vespa azzurra. Vedo i bambini là in fondo che vanno e vengono, vedo la figlia della vicina, vedo la sua amica bionda. Le sento parlare, ridere, a volte ho l’impressione che guardino verso quassù e ridano di me, come ridono i bambini che adesso giocano più in là gridando e schizzando l’acqua. Vedo le ragazze in costume e le coppie che si fingono felici e le comitive imbecilli che parlano di cazzate e di vestiti. Il punto vero è che vedo il mondo, è vicinissimo, e non so arrivarci. Forse dovrei diventare come uno di quei tizi muscolosi abbronzati che ascoltano la house in macchina. Adattarmi e basta. O fare un passo alla volta, del tipo stabilire che da domani in poi dovrò guardare tutti fisso negli occhi quando gli parlo. E dormire sulla schiena, camminare con i palmi rivolti in avanti, come dice Rocco, impostarmi la voce, guardarmi di più allo specchio, e iniziare a rispondere male a tutti quelli che mi guardano strano. O fare una pazzia d’improvviso, tipo affacciarmi dalla finestra del bagno col pisello in mano e gridare alle ragazze, “Yuuhuu!! Questo è per voi!” Il solo pensiero mi fa scompisciare dal ridere. Magari è troppo piccolo e riderebbero loro. O darmi una scadenza, una data dopo la quale diventare come tutti. Ma se sto così tanto a pensarci, la mia freccia dovrà sfondare l’infinito per andare da A a B.
Non dovrei essere così.
La sera, appena gli altri dormono, salgo le scale fino al grande terrazzo ricoperto di pece nera. Con soli tre piani, è il palazzo più alto di tutti, se mi metto seduto nessuno può vedermi. Tutto è silenzioso, il cielo è nero e punteggiato di stelle. Posso unirle a tre a tre formando dei triangoli perfetti.
Appena su, recupero il pacchetto di sigarette tra le scatole accatastate di mattonelle e me ne accendo una. Vedo due gatti maschi che si azzuffano e la femmina che li osserva da lontano. Sono davvero violenti. Lo sconfitto alla fine scappa via tutto acciaccato, e il vincitore va dalla gatta, che però lo scaccia. Bastarda! O forse preferiva l’altro, mi dico. Una gatta dall’animo nobile che preferisce i perdenti. Lui si mette lì e fa tutto l’offeso. Ma lei ritorna da lui come per scusarsi o per consolarlo. E allora lui le salta di nuovo addosso e lei lo scaccia di nuovo. Fanno davvero così, diverse volte, lei sempre meno aggressiva, e alla fine si accoppiano con mille gemiti di piacere che sembrano i vagiti dei neonati. È bellissimo.
Davanti a me, più in basso su questo lato del palazzo, c’è la casa dell'americana. Un giorno si affaccerà per caso e mi vedrà, e parleremo in inglese per tutta la notte, di musica e delle cose che sogna di fare. Devo preparare una passerella, una scala, per farla venire quassù. Vedrò il suo viso morbido illuminato di azzurro, i suoi occhi grandi nella notte e la sua frangetta bionda, i suoi seni tondi, tutto sarà blu dei riflessi della luna. Sono certo che una sera si affaccerà, lei lo sa che sono qui.
Certe sere mi metto disteso sulla pece nera, ancora calda, e guardo le stelle lucenti. Nessuno sa che sono qui. Ho piantato il seme, adesso quei triangoli si formeranno senza il mio aiuto, e circonderanno il mondo congelandolo nel loro dolore cristallino.
Mi sbottono la patta e mi carezzo piano guardandole lassù ed è come fare l’amore con l’universo.
Non dovrei essere così, ma va bene... va bene.

lunedì 30 luglio 2018

Thirteen (7)


Io non lo so perché succede e a dire il vero non me ne frega niente. Mi dispiace solo per la mamma. Lo sento quando arriva. Si guardano storto, poi sbuca dal nulla una parola sbagliata. Stavolta era già nell'aria da un po' quando è scoppiata. Alla tv senza volume passava uno spot sulle gengive sanguinanti. Dal rubinetto cadeva una goccia ogni tre secondi. Lei teneva gli occhi bassi e tagliava la mozzarella. Lui aveva abbandonato le posate sul piatto e non le staccava gli occhi di dosso. "Non mi rispondi neanche," le ha detto. Lei si è bloccata, ha alzato lo sguardo ma solo un attimo, poi ha infilzato un pomodoro. Io e mia sorella continuavamo a mangiare senza alzare gli occhi. "Cosa vuoi che ti risponda? Fai tutto tu," è sbottata, ha messo giù forchetta e pomodoro trafitto, si è alzata e se n'è andata. Lui l'ha seguita con lo sguardo. Ha guardato le posate, le ha afferrate, ha guardato noi lì immobili e ha imprecato: "Che fate?"
Abbiamo finito la cena senza guardarci e senza dire una parola. Il piatto della mamma è rimasto lì anche quando abbiamo sparecchiato perché magari più tardi le torna fame.
Perché gli adulti devono stare assieme quando non si amano più?, ti chiedo adesso, stringendo forte la pietra.
- Penso che divorziare costi un sacco.
Ma se non sono neanche sposati. Non devono divorziare.
- Sì, ma costa lo stesso. E non è facile. Mio papà e mia mamma non penso che potrebbero divorziare mai. Dove se ne andrebbero? Penso che sia così anche per le persone normali. Credo di non averli mai visti che si baciavano. Non litigano come i tuoi ma non lo so se poi si vogliono bene. Non credo. Sul trapezio però sembra quasi che si amino. Quando lei si allunga e lui l'afferra al volo e sorridono. Sono belli. Mi hanno insegnato a sorridere sempre durante le esibizioni, soprattutto se sbagli, soprattutto se cadi e ti fai male. Ti devi rialzare e sorridere. Ecco, io non lo so se sorridono perché si amano, ma sono belli sul trapezio.
Ti invidio. Mi piacerebbe tanto fare quello che fate voi.
- A volte mi chiedo come sia avere una casa vera, e non queste roulotte. Andare sempre alla stessa scuola. Non lo so se poi mi piacerebbe. È bello quando arrivo in una scuola nuova e tutti sono incuriositi. Ma mi piacerebbe avere una casa vera e vivere sempre nello stesso posto.
Io quando sono arrivato nella scuola nuova qui erano tutto meno che incuriositi. Mi hanno guardato e hanno abbassato gli occhi sui banchi e hanno continuato a parlottare fra loro. Ma io non ho una vita interessante da raccontare.
- Per me la tua vita è interessante.
Io farei subito a cambio, guarda. Anzi, niente cambio, voglio venire da te. Cosa posso fare? Una cosa facile? Il clown?
- Fare il clown è difficilissimo! Potresti vendere i popcorn.
Grazie oh. Ma va bene, anche vendere i popcorn. Per cominciare.
- Vorresti domare i leoni? Ahahahahah. Devo andare adesso. Mi chiamano. Buonanotte.
Buonanotte.
La pietra lampeggia una volta e si spegne. Di là sento le voci smorzate che parlottano, forse più calme adesso.
Potrei alzarmi e andare a origliare. Ma te l'ho detto, non me ne frega proprio niente.

mercoledì 20 giugno 2018

Hey Matthew

G̶e̶n̶t̶i̶l̶e C̶o̶r̶t̶e̶s̶e̶ E̶g̶r̶e̶g̶i̶o̶ Vabbè vicepresidente del consiglio Salvini,
Chi le scrive è un italiano, non particolarmente fiero (sono nato qui e così per caso) appartenente (suppongo che per lei ciò avvalori il mio accorato appello) alla maggioranza bianca ed eterosessuale della nostra amata nazione, siciliano grosso modo ariano pronipote di Federico II - e comunque so che ormai lei ha perdonato noi terroni puzzoni riunendoci al resto d'Italia sotto la bandiera di un più grande odio internazionale.
Le scrivo appunto, non senza disappunto, in merito al suo motto "Prima gli italiani".
Ecco, io non vedo da parte sua grande attenzione verso i miei connazionali. La vedo con gli occhi iniettati di sangue e la bava alla bocca a parlare di sbarchi, di neg*i, di zing*ri, di tutto meno che di noi italiani.
Le volevo ricordare perciò una serie di cosine che riguardano noi italiani e di cui potrebbe occuparsi, visto che veniamo prima, se per un attimo lasciasse stare gli stranieri e le navi e le schedature e mammaliturchi. La campagna elettorale è finita, lei ha vinto, s'è preso tutto, s'è magnato pure i cinquestelle. Ora potrebbe pensare a noi italiani che veniamo prima.
Potrebbe per esempio occuparsi dei terremotati. Sono stato a Norcia un paio di giorni fa, e credo che quegli italiani lì preferirebbero di gran lunga essere loro al centro dei suoi pensieri. Loro non hanno paura dei neri ma di non esistere mai più. Il loro sguardo è disilluso e dietro la dignità di quella gente c'è la certezza di essere stati dimenticati per sempre.
Ci sono sì degli stranieri di cui potrebbe occuparsi, e che ci rubano il lavoro e attentano al nostro futuro, ma viaggiano in prima classe e non in barconi, sono ben vestiti e profumati. Potrebbe occuparsene un po', dei confini e delle frontiere economiche, degli invasori industriali e finanziari, che hanno demolito certezze degli italiani molto più dei neri raccoglitori di pomodori schiavizzati dai caporali italiani. Lei, diciamolo, è di destra, e se la destra ha una cosa che potrebbe rivelarsi utile e interessante per noi oggi (benché sempre ottusa e egoistica) è quel filino di protezionismo che ti fa sentire, mbuh, magari illusoriamente, protetto.
Potrebbe occuparsi della ricerca, dei cervelli in fuga, delle eccellenze italiane perdute, della mafia, del credito, delle banche e degli evasori, della disoccupazione, ma niente, per lei vengono prima gli stranieri. Dedica tutte le sue forze a quelle due decine di migliaia di stranieri che arrivano qui disperati ogni anno anziché aiutare quelle centinaia di migliaia di giovani che hanno rinunciato a cercare un lavoro e aspettano con terrore la morte dei genitori per sprofondare nell'indigenza assoluta. Ciancia di sostituzioni di popolo e di gay che attentano alla famiglia (anche se i gay non chiedono altro che di fare famiglia, scemi che sono) senza accorgersi del fatto che non nascono figli perché la gente ha paura. Del futuro, non di fantomatiche invasioni.
Però lei no, lei in piena apocalisse nucleare si occupa delle zanzare.
Signor vicepresidente del consiglio, io sono italiano e a suo dire vengo prima. Quelli che le ho elencato sono alcuni dei miei, dei nostri problemi veri.
Signor Salvini, quand'è che tocca a noi?

(soundtrack)

venerdì 15 giugno 2018

Stiamo tutti bene(?)

A volte un'immagine vale più di mille parole, specie in un'epoca in cui tanti sembrano abusare delle parole e essere del tutto immuni ai ragionamenti.
Contano le immagini, le storie, per arrivare dritti al punto.
E questo è il momento in cui, senza esitazioni, dovrebbero entrare in gioco gli artisti, in ogni ambito, per dar voce agli immigrati e agli ultimi. Evitando la tentazione di piazzarsi davanti alle telecamere e fare i paraculi impegnati*, cercando piuttosto di semplificare e parlare di queste persone, in quanto persone, vite, in termini immediati e comprensibili: calare noi stessi, e con noi il destinatario, al loro posto, far capire quanto siano simili a noi nel profondo - è importantissimo - da dove vengono, in cosa consiste quel loro viaggio, perché si sottopongono a tutto questo. E parlare di noi: per quale motivo c'è tanta paura e perché non bisogna averne, se è vero che le nostre vite sono poi tanto influenzate dalla loro presenza. Cosa magari c'è di vero, se c'è - perché anche le paure vanno capite e esplorate - a cosa dobbiamo rinunciare e rassegnarci se c'è qualcosa che davvero cambia con il loro arrivo.
Foto, musica, cinema, youtube, teatro, arti figurative, videogame, giornalismo, social network. Tutti possiamo fare la nostra parte.
Ci vogliono storie, semplici come parabole, niente metafore complesse o citazioni colte. Pochi ragionamenti - tanto non funzionano, si è tristemente visto in questi giorni. Storie, di persone simili a noi che come faremmo noi vogliono salvarsi la vita. Storie di noi al loro posto.
In questi giorni circola questa foto scattata dalla giornalista Sara Alonso Esparza sulla nave Aquarius, che mostra una donna con i suoi bimbi sulla nave Aquarius, uno dietro la schiena, uno che viene allattato. La donna è bella e ha la pelle chiara. La foto è spiazzante per chi ha ormai il cuore in "modalità disumana", per quelli che "immigrato=nero=non umano".



Temo che la forza della foto, e la possibilità che ha di scardinare forse persino il cuore di qualche fasciogrillino, sia data dal colore chiaro della pelle di madre e figli. Molti non proverebbero nulla di fronte a una nera col suo bambino, temo. Un po' come il piccolo Aylan: un bimbo nero avrebbe smosso altrettanto le coscienze? Non parlo di voi amici ovviamente, non dubito minimamente della vostra umanità. Nel pubblicare quella foto mi sono chiesto: non sono un po' stronzo a puntare sulla foto di una donna tanto simile a noi da sembrare falsa?
In realtà la foto ha un suo lato ingannevole, perché molte delle persone sulla Aquarius sono nerissime. Ma questa cosa risulta un inganno solo per chi distingue fra esseri umani e esseri meno-che-umani (eccoli, chiedono prove, fonti, qualcuno dirà: "quanto hanno pagato?"). Per tutti noi, per chi ha conservato un briciolo di umanità, una madre che allatta il figlio è una madre che allatta il figlio, a prescindere dal colore della pelle. Ci sono persone invece la cui umanità, se c'è ancora, ha bisogno di essere risvegliata da una somiglianza, da una semplificazione. Ecco perché ci vogliono anche foto così, e ci vogliono le storie, le narrazioni, ecco perché le arti possono soccorrerci e portarci dove ogni ragionamento fallisce, accolto da grida e insulti e formulette prefabbricate.
Chiunque sappia scrivere, cantare, disegnare, fotografare, scolpire, tradurre, filmare, suonare oggi deve sentirsi chiamato a fare la sua parte, per raccontare in maniera misurata schietta e dignitosa quello che sta accadendo. Perché solo le arti sono in grado di superare il silenzio le menzogne le grida l'odio la violenza e la sopraffazione. Ma bisogna farlo senza retorica né catechismi, bisogna farlo porgendo storie semplici e comprensibili a tutti.
Questo è uno di quei momenti storici in cui si deve stare da una parte o dall'altra, e creare e comunicare. E bisogna cominciare adesso.

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*il rischio è sempre dietro l'angolo, anche per i migliori e meglio intenzionati, ed è pericolosissimo; puntare alla semplicità ed evitare ogni esercizio retorico può essere un ottimo vaccino. (Un esempio perfetto? la canzone "Stiamo tutti bene" di Mirkoeilcane.)

sabato 9 giugno 2018

Once in a lifetime

Quando un personaggio importante, famoso e amato si suicida, puntualmente spunta qualcuno che dice: "Ma aveva tutto!"
Davvero crediamo che sia una questione di "felicità"? Che basti "avere tutto" per essere felici? Essere vivi è questo?
A me pare ci siano persone che hanno un germe terribile dentro, che combattono magari da anni una battaglia e noi non lo sappiamo.
Magari non sono neanche persone depresse o infelici.
Magari hanno tutto, "a beautiful house, a beautiful wife" ma a volte gli si spalanca sotto un baratro, una tentazione al non essere. Io me l'immagino così.
La sola cosa che so è che non sappiamo nulla degli altri, a volte neppure delle persone che abbiamo accanto.
Dovremmo deciderci una buona volta ad ammettere che della felicità degli altri non sappiamo nulla.
(Soundtrack)

giovedì 7 giugno 2018

"Prenditeli a casa tua"

Quando qualcuno mi dice "E prenditeli a casa tua i rom e gli africani", lo ammetto, il cervello mi si inceppa.
È una frase talmente stupida che nella sua evidente insensatezza ti trascina fuori da ogni possibilità di dialogo. Viene di arrendersi. Che fai, gli spieghi che la sua è una "fallacy"? Potresti dire "Sai? Stai deviando il discorso". Ma ascolterebbe? Potresti dire, magari, che non stai certamente negando la difficoltà di inserimento e di convivenza; che non stai parlando di "casa mia"; non stai offrendo soluzioni facili; che non compete al singolo di accogliere, e che non stai sottoscrivendo lo stile di vita dei rom, che magari neanche ti stanno necessariamente tutto questo granché simpatici, ma che stai solo e soltanto rivendicando la loro dignità di esseri umani.
O potresti sbattergli in faccia un'assoluta verità, che troveresti comunque meno intollerabile convivere con dei rom che con dei coglioni razzisti come lui. Ma il punto è che quella domanda ricorrente ti fotte, perché è una frase-muro, uno gnegnegnegnegnegne, specchio riflesso, il pianto assordante e inconsolabile di un neonato. Sai benissimo cosa potresti ribattere se l'interlocutore fosse una persona capace di interloquire, ma chi risponde con una frase del genere ha la testa piena di pesci rossi, anzi, di piranha mangianeuroni. (Come per i pianeti extrasolari, non possiamo vederli a occhio nudo, ma lo sappiamo per calcoli matematici che i piranha mangianeuroni devono esistere; troppe cose resterebbero inspiegate in caso contrario).
Così la ripetuta, prevedibile, banale demenza ti lascia puntualmente di sasso, e non c'è risposta che ti venga di opporre. Il fatto è che davvero noi pensavamo che il mondo fosse facile, da questa parte i buoni, da quella i cattivi. I nazisti dei film che ammazzavano gli ebrei a Auschwitz e noi che grazie al cielo mangiavamo spaghetti ed eravamo incapaci di fare roba del genere e avremmo certamente difeso la piccola Anne Frank se ci fossimo trovati lì. Ma la verità è che l'uomo fa cose orribili, e per iniziare a commetterle deve soltanto compiere un minuscolo saltino iniziale: disumanizzare.
Perché la punizione appaia asettica e incolpevole occorre che l'oggetto della violenza (il rom come la ragazza che osa camminare da sola la notte) diventi un oggetto appunto, una cosa meno che umana agli occhi del branco aggressore. Si sovrappone allora uno stereotipo alla persona e all'etnia. Qualcosa che sia riconoscibile e diverso da noi, possibilmente disumanizzato, e che per opposizione confermi la nostra identità, la nostra "normalità". Si usano paragoni con animali (Chiamiamola zoccola, chiamiamola cagna e poi lo stupro sarà più semplice, sarà meccanico), si diffondono paure su contagi e pericoli. Poi ci si conta, noi e loro. Guardali, sono quattro straccioni e noi siamo l'Italia. (Guardala, torna sempre a casa da sola la sera.) Poi si va di narrazioni. Bastano poche dicerie, uno stigma o una stranezza, una vera o falsa notizia ripetuta ad hoc e poi fatta sparire prima che venga smentita, un dito puntato. I neri e la meningite, i gay che diventano magicamente tutti dei pederasti, i rom che portano via i bambini e rubano, impenitenti e da punire. "Punire", il verbo scintilla di ogni violenza. (Non siamo noi stupratori, è lei che se la cerca, è lei la zoccola, va "punita", no?).
Ben presto quel rom (quel nero, quella ragazza troppo allegra, quel diverso in senso ampio) sarà qualcosa di talmente alieno da giustificare la violenza. Se l'è cercata, così impara. Provoca, ruba, contagia. Non occorre che sia vero, basta gridarlo forte e in gruppo.
È esattamente così che inizia il nazismo, ed è esattamente quel che sta succedendo qui oggi a noi. Persone senza scrupoli assetate di potere stanno attentando alla nostra umanità per distrarci aizzarci radunarci intorno a loro. Leader mediocri e senza idee e visioni, che non hanno lavorato un solo giorno in vita loro, cianciano di immigrati venuti a rubarci il lavoro, di rom che rubano, e ne fanno un mantra quotidiano, perché sanno di questo bug del genere umano, conoscono questo errore di sistema che c'è in potenza in tutti i nostri cervelli. Il germe del nazismo. Sanno che una bugia ripetuta tre volte diventa una verità accettata, nella nostra mente.
Per combattere quel germe allora bisogna cominciare dall'imparare a mettersi lì e rispondere a quelle domande insensate, con pazienza ma rapidamente, riportando subito il discorso su un piano di umanità. Abbassare i toni, capendo che l'interlocutore è spesso una persona ignorante e spaventata (spaventata appositamente e in modo insensato da qualcuno, in genere).
La sola soluzione è spingere quelli che propugnano la violenza a guardare l'altro negli occhi e guardare con gli occhi dell'altro, smettere di temerlo. I violenti vivono di paure. Non sono capaci di difendersi da soli, attaccano sempre in gruppo perché singolarmente sono dei fifoni. Dei deboli spaventati come possiamo esserlo tutti, ma loro la paura sono addestrati a trasformarla in violenza, verbale o materiale. Sono persone culturalmente povere e volutamente incattivite dall'alto, attraverso l'ignoranza e la tentazione di capri espiatori e soluzioni facili. Sono i penultimi, che riescono a non essere ultimi perché dei capi, degli Alfa, indicano per loro sollievo qualcun altro ancora sotto di loro. Sono fondamentalmente dei vessati e degli spaventati penultimi della società, cani carichi di rabbia che non sanno azzannare alla gola le vere cause delle loro frustrazioni: i loro stessi pigri e comodi aizzatori che preferiscono seminare odio piuttosto che ideare soluzioni.
Ecco allora, la mia risposta a quella frase, "Prenditeli a casa tua", è che non esistono soluzioni facili, che lo farei se potessi, che sicuramente vorrei frequentare e conoscere persone diverse da me ma che sono umano e riservato e ottuso come tutti e come tutti ho paura di ciò che non conosco, solo che io non ho paura di ammetterlo. Ho paura ma sono curioso e sono umano e mi piacerebbe molto avere modo di conoscere quelle persone e guardarle negli occhi. Non c'è posto a casa mia per un rom, come non c'è posto per un coinquilino di qualsiasi colore. E io non sono una nazione né un governante, la sola cosa che posso fare è restare umano, guardare negli occhi.
La soluzione non è "prenderli a casa mia", ma iniziare a pretendere risposte da chi una casa (cioè un'integrazione, un percorso, un senso, un ruolo, non un ghetto o un foglio di via) a rom e immigrati deve occuparsi di darla. Cioè quei leader mediocri che ci istigano per distrarci dalla loro plateale mancanza di prospettiva.
Non ci sono altre vie, bisogna comunicare e spiegare sempre, perché alla fine quei leader sono lo specchio e l'espressione e i mandanti di questi scemi che ti danno risposte insensate, e da qualche parte la catena va spezzata. Io dico allora, adottate un cretino. Uno ogni tanto, prendetevelo non dico "a casa vostra" ma nel vostro profilo Facebook.
Anziché bloccare, come è sano e giusto fare, ogni tanto fate lo sforzo e spiegate, con frasi semplici e comprensibili, cosa vuol dire essere ancora umani e guardare gli altri esseri umani negli occhi.
Magari, dico magari, riusciamo non dico a salvare il mondo (mi pare un'aspettativa un po' eccessiva) ma almeno a preservare qualche briciolo di umanità nel pianeta.

lunedì 4 giugno 2018

Metagoth




Non posso avvicinarmi
Potrei cadere e affogare
Non posso avvicinarmi
Potrei precipitare per novanta milioni di miglia
Nessuno è destinato a restare
Nessuno è destinato a restare
Nessuno

Io sono il silenzio
Sono il suono
Sono l'argento
Oh, l'argento svanisce
Sono un'ombra, un'ombra
Novanta milioni di miglia

(The Breeders - Metagoth)

Ice cold ice




Terre sterili e menti sterili (gelido ghiaccio)
In un altro luogo, un altro tempo (gelido ghiaccio)
Credo di non essermi mai conosciuto davvero (gelido ghiaccio)
Congelato di nuovo nella sabbia (gelido ghiaccio)
Vedremo i volti inespressivi in attesa di un cambiamento
Immobilizzati nello spazio e nel tempo
Nessuno si muove
Sono tutti impietriti nel ghiaccio freddo ghiaccio freddo ghiaccio
Immobilizzati nel ghiaccio gelido ghiaccio gelido ghiaccio

Siamo tutti macchine e tutti una cosa sola (gelido ghiaccio)
Inseguiamo informazioni su cosa si è fatto (gelido ghiaccio)
Rubando sguardi fuggitivi dal passato (gelido ghiaccio)
E queste impronte finiscono per restare (gelido ghiaccio)
Senza mai penetrare, limitandoci a contemplare
Ci sediamo a ringraziare il cielo, ma a benedirci sono delle icone
Nessun altro può confidare nel ghiaccio gelido ghiaccio gelido ghiaccio
Immobilizzati nel ghiaccio gelido ghiaccio gelido ghiaccio

Staremo insieme fino alla fine (gelido ghiaccio)
A pensare che saremmo potuti essere amici (gelido ghiaccio)
Seduti a pregare insieme che possano trasformare il clima
Il mio amore per te non morirà mai
Se ti sembro distante, è solo perché
Non dovresti vedermi piangere ghiaccio gelido ghiaccio gelido ghiaccio
Non dovresti vedermi piangere ghiaccio gelido ghiaccio gelido ghiaccio
Non dovresti vedermi, non dovresti

(Hüsker Dü  - Ice cold Ice)