mercoledì 8 agosto 2018

Thirteen (10)

Non capisco perché mi abbiano lasciato qui da solo con queste due valigie.
Forse sono già saliti a bordo e non si sono accorti che non li seguivo più. La stazione è grande e basta un attimo a perdersi. Ecco qua, non vogliono comprarmi il telefono e poi vedi cosa succede. Mi trascino a fatica verso il treno. Il cielo è di un grigio cupo. Perché siamo qui? Non dovevamo partire in aereo? Sono stufo di tutte queste belle idee degli adulti. Il treno è fermo ma non riesco ancora a raggiungerlo, è ancora troppo lontano e le valigie sono pesanti. Mi chiedo se non sia il binario sbagliato, magari mi stanno cercando. Il tabellone elettronico dice “Roma - 18:10”.
Fermo un signore con la divisa blu e gli chiedo se il treno per Roma è quello giusto per andare a Catania.
Il ferroviere ha il centro della faccia completamente vuoto, al posto del naso ha una specie di cratere, ma di pelle rimarginata, come se gli avessero sparato in faccia, però tanto tempo fa, forse quando era un ragazzo, e gli si fosse riformata tutta la pelle ma senza il naso. Mi guarda con lo sguardo torvo e interrogativo, poi mi dice di sì ma scuote il capo.
Quando mi volto verso il treno è ancora fermo, ma sembra un po' più lontano ora. Mamma e Enzo non si vedono ancora. Le valigie sono proprio pesanti e non ce la faccio più a tirarle. Non dovevano lasciarmi qui da solo. Ho paura adesso e sono arrabbiato. Non è un posto che conosco, è troppo grande e non so dove andare. Magari il ferroviere mi ha dato un'indicazione sbagliata oppure non era un vero ferroviere. Dovevo chiedergli se ci sono altri treni che vanno a Catania. Magari loro sono proprio su un altro treno. Non so neppure dove ho il biglietto. Doveva averlo la mamma. E magari alla fine mi rimprovereranno per giunta e mi prenderanno per scemo perché mi sono perso. Avrei voglia di piangere ma mi trattengo. Ho deciso tanto tempo fa che non piangerò mai più in vita mia. Le valigie diventano più pesanti a ogni passo. Non sono io che sono stanco, sarei pronto a scommettere che stanno diventando sempre più pesanti.
Non ne posso più.
Le lascio cascare per terra e una scoppia e si apre come una bomba di vestiti. Mi imbestialisco e la prendo a calci, inizio a gettare per aria tutto quanto. Ma che roba ci ha messo la mamma? I quaderni delle elementari? Camicie di quand'ero piccolo? Un paio di pantaloncini che avevo strappato al parco giochi! Delle foto, un sacco di foto in cui sono venuto malissimo. Foto imbarazzanti, foto di me da piccolo seduto sul vasino e un'altra con il cono gelato e una macchia marrone sul petto e la faccia dispiaciuta. Una foto di quando mi è uscito il sangue dal naso. Ho la faccia da cretino in tutte queste foto. Non sapevo neanche che esistessero. Rovisto ancora, contengono solo cose mie, ma che non avrei portato mai e poi mai, cose inutili e stupide su di me. Bavaglini! Inizio a gettare sulla banchina magliette e maglioni ormai stretti, il berretto di lana brutto, marrone, quello con i paraorecchi che a scuola mi toglievano e si lanciavano fra loro a ricreazione, e calzini, scarpine eleganti con la fibbia argentata, minuscole. Vestiti che ormai non mi stanno più: perché la mamma voleva portarli?

Guardo il tabellone e vedo che l'orario è cambiato. Dice “Napoli - 17:50” adesso. Sono già le cinque e mezza. Il cielo è davvero cupo adesso, come prima di un temporale. Il treno non si è mosso, ne sono certo, ma è più lontano, là in fondo, anzi a dirla tutta sembra su un altro binario. Mi guardo indietro e l'inizio della banchina è lontanissimo, ho camminato troppo forse, e non so come fare. Dovrei tornare? Recuperare le valigie, raccogliere tutte quelle schifezze inutili e trascinarmele indietro?
Ma quando alzo gli occhi e mi guardo intorno non c'è più nessuno.
Nessun treno e neanche la stazione. Sono da solo in un intrico di banchine e binari che si stendono all'infinito all'orizzonte, senza vagoni, senza persone. Il mondo è diventato una serie di linee interminabili e nel mezzo io e le mie valigie spaccate e inutili.
È buio ormai. Adesso ho davvero paura perché non so più come tornare e non so più quale sia la direzione giusta. Venivo da destra o da sinistra?
Mi sento soffocare.
Raccolgo tutto il fiato che riesco, ma è mozzato, e vorrei urlare, ma la sola cosa che mi esce è una specie di rantolo. Non riesco più a respirare.

Scatto d'improvviso e sento quel suono, il mio rantolo, e vedo due occhi rossi che mi scrutano nel buio. Provo a urlare, ma non ci riesco!

- Che cavolo hai? - sento sbraitare.
Gli occhi sono una luce rossa che dice 03:03. Mi guardo intorno.
Mi domando se sia stato l'urlo a riportarmi qui in camera mia, e se mia sorella abbia sentito. - Niente - dico.
- Dormi e non rompere, babbuino spastico.
Non era un sogno, non poteva essere un sogno. Era il viaggio. Sono andato a letto che ero ancora in Piemonte, ne sono sicuro. E adesso siamo in Sicilia.
Forse sto diventando pazzo. Come in quel film. Come si chiamava.
No.
Calmati.
Era solo un incubo. Uno di quelli in cui non respiro più e non riesco a gridare. Non lo so perché mi succeda. Non l'ho mai detto a nessuno.
E ho ancora paura.
Forse significano qualcosa. I sogni hanno un significato, no?
Un avvertimento. O una malattia. Forse sono indemoniato.
A volte mi chiedo se siano davvero sogni. L'altra volta ho sentito un demone entrarmi dentro la pancia. Era troppo... era troppo vero. Forse è ancora lì dentro. Forse mi sto trasformando in... qualcosa.
Ho ancora paura ad alzarmi dal letto.
A tredici anni, avere paura ad alzarsi dal letto. Avere paura degli incubi. Mia sorella non deve saperlo. Non deve saperlo nessuno.

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