lunedì 11 dicembre 2017

Turbulent Indigo

Credo di aver capito ormai che la vera pericolosità sociale dei talent musicali non sta nel fatto che "attentano alla musica", ma nel fatto che la pugnalano alle spalle rendendola una cosa terribilmente noiosa e prevedibile.
Dopo un paio di puntate di the Voice o X Factor, a forza di sentire cloni di cloni (e con i brani originali sono più cloni ancora) riescono quasi a farti credere che non sia più possibile nel 2017 creare qualcosa di bello e originale.
Ma la musica non è quella lagnosa rottura di palle lì, cristosanto. Ne dico una, a me piaceva quel cigno sgraziato di Rita, quella che è crollata verticalmente sotto la zavorra delle scelte di Levante e della sua stessa assoluta autodistruttiva incapacità di gestirsi. Mi piaceva soprattutto quando era fuori tono e fuori posto. Perché nella sua fragilità è stata la sola cosa in questa edizione che sia andata fuori dalle previsioni. Conoscevo una tizia, un'artista bravissima e unica ma completamente incapace di dominare la sua arte straordinaria e i suoi umori matti, che sfanculava ripetutamente il pianeta e non aveva pietà soprattutto per la sua arte prodigiosa, perché era così, tu ci avresti scommesso tutto sulla sua bravura, e lei ti avrebbe sempre deluso. Quando creava era la cosa più straordinaria del mondo e nessuno poteva tener dietro alla sua unicità. Solo che non creava. Non pareva volere. Non pareva saper volere. Non voleva consigli, né aiuto, né occasioni, né esortazioni, né fiducia sconfinata e cieca, né ricatti, nulla valeva, voleva solo covare la sua complessità e i suoi umori, anche per l'eternità se fosse stato necessario. Era giusto così, aveva ogni diritto di distruggere e gettare via tutto e di aspettare. Ovvio che sbagliava, ma era nel suo diritto sbagliare. E forse erano sbagli giusti. Erano sbagli suoi. Ma lei per prima non era felice, e lo sbaglio era tutto lì. David Lynch di recente ha detto una cosa giustissima, che l'artista non deve essere infelice, deve solo capire l'infelicità e saperla raccontare. Perché l'infelicità, l'ansia e la depressione, a dispetto delle favole, sono un freno, non un motore.
Si può essere veri artisti e veramente felici. Ma l'arte non per questo può essere rassicurante e prevedibile.
E di fronte alla calligrafia, all'imitazione e alla riesposizione letterale, all'imitazione pedissequa e alla bravura fine a sé stessa io preferirò sempre il malato, lo sporco, il brutto e l'imperfetto, lo sgraziato, quello che sembra volare alto e precipita, il discontinuo, l'inaffidabile. Perché lo sporco il malato e il rabbioso e il lercio e autodistruttivo covano mondi dentro, e un giorno possono tirarsi fuori dalla loro spirale e venire a raccontare qualcosa di nuovo e meraviglioso da quei luoghi inaccessibili. I provetti artisti, i talentuosi e primi della classe, gli esecutori impeccabili, quella visceralità, viceversa, non potranno darsela mai. I talent televisivi, con la loro misurazione e i televoti, a queste cose non ci arrivano. E per questo i talent, allevamenti in batteria, sono la negazione della musica, dell'etica e dell'estetica delle arti. Sono il demonio che compra l'anima, e la compra a buon mercato. La prende, la lucida, la rende inutile e inoffensiva, la spoglia di ogni inquietudine e la rivende al miglior offerente.
L'artista deludente, nel contesto della gara canora, è la sola cosa che sa esaltarmi e emozionarmi davvero. E, fermo restando che non credo nello stereotipo pericoloso dell'artista infelice e malato, e che credo nella possibile e necessaria felicità per creare - di artisti felici, non rassicuranti, abbiamo un gran bisogno - nello specifico contesto, di psicanalisi da tavolino dal talent, io tifo per la malattia e non per la guarigione. Di più, tifo nel contagio di quella malattia e inquietudine. Perché le arti sterilizzate dalla televisione sono un incubo asettico bianco e intollerabile.

(soundtrack)

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