martedì 19 giugno 2012

Sgabuzzino



Frequentare Facebook è un'esperienza da matti.
Vedere scorrere l'elenco infinito di frustrazioni e passioni, foto e ricette, prese di posizione e scazzi,
è una roba che col mio carattere non si regge a lungo. Popolarità, accettazione, rete, approvazione, 'mi piace', polemiche, sfilate di cani ammazzati, conteggi di suicidi (è la prima volta al mondo che un governo si misura in suicidi; non è un'idea tanto malvagia, a pensarci bene), “memi” e progetti, inviti a concerti in zone screuse dello stivale, troppa roba, troppo in fretta. 
Il fatto è che io anche al supermercato dopo i primi quindici minuti scapperei via. Le luci, l'ammasso, la bruttezza. (Quel che non reggo è soprattutto la bruttezza, credo. Il rumore di fondo dei neon luminosissimi, disumani, quelle luci che non sanno parlare e gridano BIANCO come fosse l'unica parola al mondo.)


E così ogni tanto sparisco. Anche questo blog, in certe fasi, è sparito. Per mesi infilai un redirect verso siti a caso. Inizialmente me lo spiegai dicendomi che a mettermi in difficoltà era il fatto che si potesse leggere ciò che provavo attraverso le cose che raccontavo. Perché, di qualsiasi cosa io mi metta a parlare, cazzate comprese, parlo di me. Io che sono riservatissimo.
  
Riservatezza non vuol dire segretezza; significa solo dare un valore molto grande alla propria interiorità, darle un prezzo alto da pagare in termini di attenzione, di presenza, di... dico una parolona, adesso: devozione. Essere disponibili solo nella misura in cui l'interlocutore vale e ti dà valore. Non accettare di mettersi nel bancone a disposizione di tutti, non accettare di essere presi un giorno e mollati il successivo. Era questo il concetto di "amicizia", ai tempi in cui la parola 'amico' non era ancora stata sputtanata dalle reti. Qualcosa che aveva a che vedere con la durata, l'attenzione, la profondità.
Non pare esistere nulla di simile nelle reti sociali. Vedo solo gente che urla ogni sorta di cosa, e nessuno sembra voler sapere nulla su nessun altro. E intanto mi accorgo che alle mie parole, ai miei commenti, a ogni chat, nelle domande che pongo e quelle che ricevo, ai rapporti che coltivo, attribuisco un peso eccessivo, una dimensione e un'attenzione che non hanno senso in un sistema di comunicazione usa e getta. La quantità stessa delle mie parole, il tipo di investimento verbale, concettuale, sembrano un atto di violenza in quel tipo di mondo. (Non voglio dire che sono tanto tanto intelligente e gli altri tanto tanto superficiali; voglio solo dire che questo supermercato è troppo affollato e la gente ha troppa fretta... mi ricorda quand'ero bambino e mi chiedevo perché gli adulti si domandassero sempre le stesse cose anche se era evidente che non gliene fregava nulla; tiravo per la giacca mio padre un po' per salvarlo, e a volte credo me ne sia stato grato).


Sarà per questo che ogni tanto sparisco? Per quel conflitto irrisolto e irrisolvibile fra un desiderio di riservatezza e un'insofferenza verso la superficialità? Forse per starmene un po' da solo a pormi io le domande che nessuno mi sa fare? Dire quel che voglio senza badare a un qualche 'mi piace' cliccato di sfuggita? La spiegazione ufficiale che potrei dare a me stesso stavolta potrebbe essere questa. In attesa di capirci qualcosa di più.


Niente di che.
E ci torno, magari fra un po', su Facebook. 
Però in questo momento, paragonato alla prospettiva alienante degli spazi agorafobici e abbaglianti del social network, questo piccolo blog torna a essere un rifugio, uno sgabuzzino accogliente.
Torcia elettrica, taccuino, matita. Bene così.

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